Maggio è tempo di festival, ahimè. Dal momento che invece di lamentarmi della crisi e fare il cameriere in nero come tutti gli altri laureati ho avuto la folle idea di provare a fare l’editore con Nativi Digitali Edizioni, al posto di passare il weekend in riviera o al pc sono dovuto andare a Torino in missione di spionaggio, guardate un po’ che sfiga.
La chiave di lettura del Salone del Libro, che ha allegramente caratterizzato l’ultimo weekend monopolizzando l’attenzione di benpensanti e neolaureati in lettere, è drammaticamente banale quanto palese: questa è un’Italia a due velocità, in bilico tra il dogma briatoriano che il tempo perso sui libri è tempo sottratto a bamba e mignotte e quindi inutile e la persistente fascinazione radical-chic dei fanboys di Fazio. Nella Terra dei Cachi è perfettamente normale che un mercato dell’editoria ormai da anni in una crisi più nera della Kyenge che non sembra conoscere fine ( -6,2% del mercato nel 2013, 43% di italiani che hanno comprato un libro in un anno, si è tornati più o meno ai dati di quando Andreotti non aveva la gobba) si accompagni a un Salone sfavillante, pieno di ricchi cotillons, con boom di presenze, qualche sbadiglio ma tanti bei sorrisoni a denti stretti.
Com’è possibile questo? Beh, non c’è niente di strano: il #SalTo14 (così reclamizzato, perché social è molto cool, peccato che il 3g dentro i padiglioni non funzionasse e il wi-fi avesse tempi di caricamento che i nostalgici del 56k avranno senz’altro apprezzato) è l’equivalente laico della messa di Natale per quello che resta della sinistra italiana: dal momento che durante l’anno non si è letto un libro neanche per sbaglio, si paga l’obolo al Salone e dopo una giornata passata in coda tra Fabio Volo e Chef Rubio (non so se quest’ultimo ci fosse davvero e non ho voglia di controllare, ma non mi stupirei) si arraffa qualche volume a caso dalle librer…ehm, stand di Feltrinelli o Einaudi (chiaro, si sa che Einaudi è di Berlusconi, ma se ci pubblicano i Wu Ming vuol dire che per il partito va bene dai) e si torna a casa a masturbarsi maldestramente davanti a Belen alle 23.00 di domenica sera. Questo è il visitatore medio del salone, a cui sono dedicati i numerosissimi stand di cucina (in alcuni di questi c’è finito per sbaglio qualche libro, oh che sbadatini!), le conferenze con i big, la scollatura di qualche standista e gli hotdog+coca cola a 8.20€. Sì, due maroni così, ma poi su facebook e in ufficio il giorno dopo ci si può permettere di fare gli eroi, grossomodo ne vale la pena.
Allora il Salone del Libro è una merdata colossale? Niente affatto, basta farsi largo tra la folla procedendo dritto per circa 200 metri dall’ingresso senza commettere l’errore di guardarsi intorno e si arriva alla parte figa del Salone. Piccoli editori pittoreschi, aspiranti scrittori in crisi di nervi, presentazioni di nicchia con pubblico di nicchia, blogger autocompiaciuti, persino qualche raro esemplare superstite di lettore forte (si riconoscono perché obesi e/o pieni di forfora, oscillanti tra lo stato di beatitudine e il disagio sociale), pensate! Questo è il #SalTo della solidarietà tra sfigati, delle conferenze con panel pieni di gente divertente e intelligente, dell’editoria digitale che inizia a fare sentire la sua voce (we are the 3%!). Il fatto che la parte figa del Salone, esclusi gli addetti ai lavori, fosse praticamente scevra di over 40, rimasti incastrati tra i FlipBook (la nuova “rivoluzionaria!!” e agghiacciante trovata di marketing di Mondadori) e Peppa Pig, ma discretamente popolata da una giovane fauna di nerdazzi che neanche il Lucca Comics, hipster che neanche il Salone del Mobile e qualche ibridazione delle due categorie, mi farebbe quasi guardare al futuro dell’editoria con malcelato ottimismo. Anche se di faccia di culo per scrivere editoria e ottimismo nella stessa frase ce ne vuole tanta ma tanta.
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