Qualche giorno fa scrissi un editoriale sul caso Cucchi, intitolato “Impunità”, e nei commenti qualcuno mi fece notare che avevo utilizzato – a suo dire – il termine “repressione del dissenso” in modo improprio. Oggi parlerò, dunque, di come sta avvenendo una repressione del dissenso reale e palpabile, e non in Cina, ma alle porte d’Europa, a Istanbul.
Mi auguro che abbiate tutti ascoltato un tg o letto un giornale negli ultimi 20 giorni, ma per chi non avesse familiarità con ciò che sta succedendo in Turchia, ecco una carrellata di fatti: il 26 maggio scorso un gruppo ambientalista comincia a manifestare contro la distruzione del parco di Gezi a Istanbul, distruzione prevista per fare posto a un nuovo centro commerciale. Il 31 cominciano gli scontri, e rapidamente la protesta si allarga, sia geograficamente, arrivando ad Ankara, sia numericamente, comprendendo adesso anche l’opposizione politica e i sindacati; le manifestazioni hanno ormai assunto un aspetto laico e avverso al governo islamista di Erdogan, ma sono anche dovute al malcontento riguardo al metodo scelto dal premier turco per affrontare la questione: cariche della polizia sui manifestanti e arresti di massa. (Per chi volesse un resoconto dettagliato delle prime giornate, lo trova qui).
Qualche numero? Più di 1700 arrestati, di cui 24 per un tweet. Inclusi nel conteggio gli avvocati difensori dei primi arrestati, che sono stati a loro volta fermati – in tribunale – dalla polizia (vedi foto sopra), e i medici che in questi ultimi giorni curavano i manifestanti colpiti dai gas urticanti della polizia.
Il governo Erdogan si è reso, è vero, protagonista di qualche apertura al dialogo, proponendo di far passare la distruzione del parco al vaglio di un referendum, ma di fronte al rifiuto dei manifestanti di abbandonare piazza Taksim le cariche della polizia sono state reiterate ed è ripresa la repressione, al punto che oggi, dopo aver sgombrato la zona per l’ennesima volta, Erdogan ha avvisato che chiunque venga trovato in piazza sarà trattato come un terrorista.
Questa pare la linea che il governo turco ha intenzione di seguire: una presa di posizione dura, mentre si dà la colpa delle rivolte a un presunto complotto, a lobby di potere, influenze straniere e, tanto per cambiare, organizzazioni terroristiche. Intanto, nelle retate, vengono arrestati anche i collaboratori di Amnesty International, mentre ai manifestanti viene reso impossibile difendersi giuridicamente o anche solo farsi curare dopo le cariche della polizia.
C’è chi annovera quanto sta accadendo in Turchia tra gli eventi della cosiddetta “primavera araba”, e chi ne rivendica la particolarità sottolineando la laicità della rivolta, che denuncia particolarmente le posizioni filo-islamiche e reazionarie di Erdogan. Per quanto mi riguarda, si tratta di entrambe le cose: il movimento che si oppone al governo è dotato di molte anime, da quella ambientalista originaria a quella laica, passando per i sindacati e le opposizioni di sinistra. Quel che è certo è che si tratta di un popolo che rivendica i suoi diritti, e che combatte per le sue libertà.
Un popolo che, mentre il mondo sta a guardare, viene schiacciato dal governo che dovrebbe rappresentarlo. E picchiato dalla polizia che dovrebbe difenderlo. Non posso che augurarmi che il movimento vinca. E che l’autoritarismo di Erdogan sparisca con le sue dimissioni. Che, dopo Ucraina e Ungheria, un altro governo fascista alle porte d’Europa non ci vuole proprio.
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