Nelle fila dei gruppi che modificano, nel loro piccolo, una parte del concetto di musica, si trovano gruppi grandi, leggendari, storici, ma anche piccole formazioni che passano spesso inosservate.
tra queste centinaia, ci sono i Jizue, quartetto di Kyoto a cavallo tra Post-Rock, Math-Rock e Jazz.
Tra il primo Ep del 2009, quello del 2012 (Novel) e Journey del 2013 il più interessante ed emblematico è sicuramente l’ep selftitled.
Il primo pezzo racchiude in sè l’anima di quasi tutto l’ep dei giapponesi: interventi pianistici abbelliti dalla chitarra e sorretti da una ritmica di forte matrice jazz, con una semplice struttura basata su un ritornello orecchiabile.
Quello che “stunna” l’ascoltatore è però il perfetto equilibrio tra melodia e ritmo,entrambe curate maniacalmente, il tutto immerso in quell’atmosfera eterea tipica della j music.
Avanzando nell’ascolto, si rimane sempre più colpiti dalle atmosfere, che, nonostante giochino sempre sulle stesse corde emotive, rimangono irresistibili.
Ciliegina sulla torta gli intermezzi di matrice math, dove la chitarra prende il controllo. Più che delle variazioni sembrano dei pezzi a sè stanti, che però danno a volte l’impressione di essere solo riempitivi, per quando di fattura eccelsa.
Volendosi soffermare nella critica, sembra di sentire una sorta di inibizione, una paura di esagerare. Emblematica la sequenza di sedicesimi a 4.37, che sarebbe potuta sfociare in un assolo memorabile. Il rovescio della medaglia della cura maniacale.
Indentica struttura, indentici intrecci, identica pacatezza, identica magia, che continua inperterrita nei restanti pezzi.
Particolare la struttura, molto simile a quella post rock canonico, per quanto il build up sia appena accennato.
I Jizue confezionano un gioiello di labor limae, curato all’inverosimile, romantico, ripetitivo, ma mai noioso o scontato.
In direzione abbastanza diversa si muove il primo album, che, conservando in buona parte dei pezzi l’uso di ritornelli particolarmente melodici, aumenti il numero e la varietà degli intermezzi.
Particolare apparentemente innocuo, ma fondamentale per coprendere il cambio di rotta, è l’intro di chitarra.
Subito si sente una potente virata verso il jazz ritmicamente (basta sentire l’intreccio di basso e batteria) e armonicamente: spostamente di un semitono ben altro che melodici.
Gli elementi jazz aumentano,anche se filtrati attraverso uno studio di unisoni, cambi e variazioni. Lo sperimentalismo viene costretto entro i limiti della melodia, ma senza perdere la sua essenza.
Pezzo molto più lineare, praticamente un’unica grande A, basato un un intreccio di chiratta e batteria filtrata (o drum machine), forma mentis che porterà a risultati ancora migliori nel terzo lavoro.
La traccia successiva, è la prima ad avere una forma apertamente post-rock, anche se meno tesa. Tutto ciò in un’ottica di rielaborazione e sintesi di forme musicali, anche lontane tra di loro.
ritorna il riff costante e affiorano nell’ultima parte del pezzo delle voci (altro spunto che verrà consacrato nel terzo album).
Le ultime 3 tracce condensano il senso dell’intero album in soli 15 minuti .
dopo un pezzo ambient di piano, che inaugura l’uso di tastiere, torna il tratto melodico proprio dei Jizue, che termina in una cavalcato post rock da manuale, punto di arrivo di una sintesi lunga un album.
Tutti gli elementi studiati e acquisiti nei due album precendenti esplodono nel terzo, i Jizue uniscono senza forzature fraseggi jazz, melodia romantica, elementi elettronici, math e post rock, in un tuttuno organico e levigato, per quanto a volte vagamente artificiale e troppo studiato. Una delle produzioni migliori dell’anno, passata totalmente inosservata, ma meritevole di ascolto.
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