Quante cose si potevano comprare con due penny nel 1910! Se Michael avesse ascoltato suo padre e avesse aperto un conto alla Grande Banca Dawes piuttosto che dar da mangiare ai piccioni (grassi) sarebbe diventato “azionista di ferrovie in Africa, dighe in Canadà, flotte sopra i mari, canali che uniscon gli oceani fra lor, milioni di piante di tè!”. Non stava esagerando Mr. Banks, la Belle Époque fu l’età dell’oro per la globalizzazione.
Nel 1913 c’erano depositi nelle banche del Regno Unito per un ammontare di 1,2 miliardi di sterline, contro gli appena 45 milioni che circolavano in banconote. Il denaro di tutti i ceti sociali ormai si era concentrato all’interno degli istituti finanziari, lontano dagli occhi non essendo più necessario sorvegliarlo per tenerlo lontano dai rischi. Ormai la finanza aveva smesso di essere una prerogativa degli alti borghesi in redingote e cilindro: pure i famelici piccoli impiegati potevano gettarsi a capofitto sul piatto di portata degli investimenti globali. Alla modestissima somma di 2 scellini e sei penny ragionieri e scrivani potevano acquistare il libro di Henry Lowenfeld Investment: An Exact Science, che raccomandava “un corretto sistema proporzionale, basato su una distribuzione geografica del capitale” in quanto mezzo per “ridurre al minimo la macchia della speculazione dall’attività di investimento”. Come ricordò John Maynard Keynes nelle sue Conseguenze Economiche della Pace (1919), con poca fatica anche a un Londinese di scarsi mezzi poteva “avventurare la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle nuove aziende di ogni angolo del globo, e condividere, senza difficoltà o anche rischio, i frutti e i benefici del loro andamento”.
Non erano esagerazioni. Nel 1913 esistevano nel mondo obbligazioni per 158 miliardi di sterline, di cui 45 miliardi (il 28%) era detenuto da soggetti residenti in un paese diverso da quello dell’emittente. La globalizzazione finanziaria turbinava. Alla borsa di Londra erano quotati titoli di 57 diversi Stati e governi coloniali. Sommando tutti gli investimenti effettuati nel Regno Unito dal 1865 al 1914 si può osservare come solo un terzo avvenne all’interno del paese, mentre i restanti due terzi riguardavano operazioni d’oltremare in paesi spesso poverissimi. Se nel 1997 gli investimenti diretti in Stati dal PIL inferiore a un quinto di quello degli Stati Uniti erano solo il 5%, nel 1913 erano il 25%. Pure gli scambi commerciali fra nazioni europee erano frenetici; c’era la libera circolazione di merci, capitali, lavoratori e anche servizi: la Germania assicurava tutta la sua flotta mercatile al Lloyd’s di Londra. Dall’altro lato, nel 1912 la somma degli scambi che il Regno Unito effettuava con la Germania superava quella degli scambi riguardanti tutto il suo immenso impero coloniale (un quarto del globo) meno l’India.
Se i lavoratori diventavano lentamente sempre meno poveri, chiunque avesse un minimo di capitale sotto forma di risparmi poteva metterlo in banca e vederlo crescere rapidamente senza rischi. La distribuzione della popolazione fra le diverse classi di reddito oggi è molto più simile a quella di allora che agli anni ’70. Tutti tentavano di diventare redditieri, perché il rischio di vedere i propri risparmi polverizzati sembrava inesistente. Tutto era too big to fail, i governi avevano messo su numerose reti di salvataggio per farlo credere. Per il 1908 quasi tutte le banche centrali europee avevano abbracciato il gold standard (il sistema monetario dove la banca centrale emette banconote convertibili per pari valore in oro da lei detenuto), semplificando quindi la vita degli investitori riducendo i rischi connessi alle oscillazioni dei vari cambi. Già dal 1865 era istituita l’Unione Monetaria Latina, che giunse a comprendere una trentina di nazioni (fra cui Francia, Italia, Spagna, Austria e Russia) impegnate a coniare monete del medesimo valore e quindi utilizzabili in modo perfettamente intercambiale in ogni paese. Tutti i governi apparivano più stabili dopo che alla deflazione del 1870-1890 si era sostituita una moderata inflazione, che permise di rendere meno gravoso il peso del debito pubblico. Non era un dettaglio da poco, dato che proprio fra 1870 e 1890 molti Stati avevano dichiarato default trasformando i loro titoli di stato in carta straccia. Con questa nuova crescita e stabilizzazione che conosceva il mondo solo Grecia e Nicaragua fecero bancarotta, mentre i tassi d’interesse calavano progressivamente: chi nel 1880 aveva puntato su globalizzazione e crescita con un portafoglio di titoli di stato di vari paesi si ritrovò nel 1910 con profitti stellari.
C’era la convinzione che non ci potessero essere vere turbolenze a sconvolgere questa globalizzazione. Era già dal 1880 che i titoli di stato commerciati alla borsa di Londra avevano smesso di fluttuare violentemente in risposta agli avvenimenti politici, tanto che sia le due crisi marocchine che le due guerre balcaniche vennero accolte con poco più di una scrollata di spalle: non ci poteva essere un premio per il rischio politico non essendo ritenuto esistente alcun rischio politico. Sempre citando Keynes: “La Rhodesia Meridionale – un posto nel bel mezzo dell’Africa con poche migliaia di abitanti bianchi e meno di un milione di neri – poteva piazzare un prestito senza garanzie a condizioni non molto differenti dal nostro Prestito Britannico di Guerra”.
L’era della globalizzazione si accompagnava all’ottimismo. Canta sempre il Signor Banks in Mary Poppins: “It’s grand to be an Englishman in 1910 King Edward’s on the throne, it’s the age of men!“. Nell’epoca bella della modernità trionfante l’oro garantiva la moneta, non era necessario il passaporto per attraversare i confini degli Stati europei, erano frequenti gli scambi accademici di studenti e professori tra la Francia e la Germania, la Germania e la Gran Bretagna. I militarismo e l’imperialismo delle rivalità culturali e razziali erano poco più che bizzarrie che divertivano col giornale domenicale. Esisteva una letteratura popolare che descriveva immense guerre future se non l’apocalisse vera e propria, ma era un po’ il corrispettivo degli attuali film di Roland Emmerich. Lo storico francese Anatole Leroy-Beaulieu scriveva con convinzione nel 1902 sulla rivista La Nuova Parola che “il compito del XX secolo sarà sradicare gli odii nazionali distruggendo i pregiudizi nazionali, stringere fra gli Stati dei legami morali e materiali, sbozzare se non conchiudere, per la pace del genere umano, delle unioni e delle federazioni internazionali”. Non sembrava un ideale utopico perché erano tre decenni che non si vedevano guerre né rivoluzioni in Europa.
Trenta anni senza guerre e la convinzione che così sarebbe continuato: L. Marrocco scriveva sul numero del 31 Ottobre di Rivista Popolare: “La guerra va ormai considerata come il mostro virulento della civiltà umana. La guerra è l’ultimo segno della degenerazione atavica, in contrasto evidente con lo spirito della civiltà odierna”. Lo scrittore austriaco Stefen Zweig nel suo Il mondo di ieri: ricordi di un Europeo ribadisce che si stava vivendo “l’età dell’oro della sicurezza”: “non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nell’irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti tra le nazioni avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità”.
Questo ottimismo era anche motivato dai mutamenti tecnologici radicali che apparivano aprire la strada ad un mondo nuovo, dove in quanto tale non sarebbero valse le regole dei secoli precedenti. Si apriva un’era con nuove difficoltà, come sempre meno posti di lavoro per una automazione sempre maggiore dell’attività produttiva, ma finalmente senza guerra. Era questo in sostanza quello che diceva il ministro del commercio francese Alexandre Millerand, primo socialista in un governo borghese, in inaugurazione dell’Esposizione Universale del 1900 col suo discorso sotto la prodigiosa Tour Eiffel: “Quali progressi possono essere realizzati, quali trasformazioni operate, nello spazio di solo tre generazioni, uno sguardo gettato sull’Esposizione centennale basterà a rivelarcelo. Il vapore, l’elettricità, ridotti alla parte di docili serventi, hanno trasformato le condizioni dell’esistenza. La macchina è diventata la regina del mondo. Installato da padrone nella nostra officina, l’organismo di ferro e d’acciaio scaccia e sostituisce, mercé d’un lento e continuo invadimento, i lavoratori di carne e ossa. Quale cambiamento nelle relazioni umane. Le distanze diminuiscono fino a scomparire. In alcune ore sono divorati dei percorsi che un tempo non si compivano che in giorni e settimane. Mentre crescono all’infinito l’intensità e la potenza della vita, la stessa morte indietreggia davanti alla marcia vittoriosa dello spirito umano. Il male, afferrato alle sue origini, isolato, cede. L’incontro pacifico dei Governi del mondo non resterà sterile. Io sono convinto che, grazie all’affermazione perseverante di certi pensieri generosi di cui ha risuonato il secolo che finisce, il XX secolo vedrà rifulgere un po’ più di fraternità e un po’ meno di miserie di ogni ordine e che ben presto forse avremo varcato uno stadio importante nella lenta evoluzione del lavoro verso la felicità e dell’uomo verso l’umanità.”
La guerra poi era economicamente davvero impossibile. Era evidente che non ci sarebbe più stata alcuna guerra fra potenze perché per nessuna aveva convenienza a farla scoppiare, significando l’implosione della globalizzazione e del sistema economico mondializzato. Nel 1898 il ricco finanziere polacco della Russia zarista Ivan Bloch pubblicò un trattato in sei volumi intitolato Is War Now Impossible?, dove sosteneva che l’immenso incremento della capacità distruttiva degli armamenti avesse eliminato l’eventualità di una guerra su vasta scala, dato che non avrebbe fatto altro che provocare “la bancarotta delle nazioni” e “la rottura dell’intera organizzazione sociale”. Nel 1910, invece, l’allora giornalista con simpatie di sinistra Norman Angell, futuro premio Nobel per la pace nel 1933, diede alle stampe The Great Illusion: la tesi del libro era che nelle nazioni civilizzate nei trenta anni precedenti l’economia avesse raggiunto un tale livello di integrazione da rendere la guerra totalmente inutile e il militarismo obsoleto. D’altronde l’economista Frédéric Bastiat non aveva già detto, quasi settanta anni prima, “dove passano le merci non passano i soldati”?
Nella primavera del 1914 venne pubblicato il rapporto della commissione internazionale sui crimini avvenuti durante le guerre balcaniche, dove si ripeteva che le grandi potenze d’Europa, a differenza degli insignificanti stati balcanici, “avevano scoperto la ovvia verità che sono gli stati più ricchi quelli che hanno più da perdere da una guerra e infatti ciascun paese desidera la pace sopra ogni cosa”. L’inviato britannico della commissione, Henry Noel Brailsford, dichiarò: “In Europa l’era delle conquiste è terminata e con l’eccezione dei Balcani e delle periferie estreme degli imperi austriaco e russo, non c’è niente di tanto certo in politica estera quanto che le frontiere dei nostri stati nazionali sono al fine definite. Sono vivamente convinto che non ci saranno più guerre fra le sei grandi potenze”. Non si rese conto che era l’ultimo giro di valzer della Belle Époque della globalizzazione sulla bocca di un vulcano attivo. Il 28 Giugno 1914 a Sarajevo veniva assassinato l’erede al trono asburgico: scoppiava la Prima Guerra Mondiale.
Ci volle un mesetto prima che gli investitori grandi e piccoli si accorgessero che ci si trovava di fronte a qualcosa di serio. Non appena avvenne, la liquidità che si era sparsa dall’Europa in tutto il mondo venne risucchiata indietro in pochi giorni. L’Argentina, che grazie agli investimenti europei ad inizio novecento era diventata un paese prospero, collassò senza tornare mai più ad esserlo. Quella che era la realtà ovvia della globalizzazione cominciò a essere un po’ meno ovvia.
Si iniziò con un aumento del costo delle assicurazioni sulle spedizioni. Poi i prezzi delle obbligazioni e delle azioni iniziarono calare, con sempre più investitori che per prudenza chiudevano le posizioni aperte e le convertivano in denaro contante. I tassi di cambio impazzirono mentre tutti tentavano di rimpatriare quanta più liquidità possibile, con sterlina e franco che si rafforzavano immensamente rispetto a rublo e dollaro che colavano a picco. I fondi finanziari che operavano in leva, come Derenberg & CO., iniziarono a fallire, mentre le grandi istituzioni che si occupavano dello sconto di cambiali internazionali erano sempre più preoccupate: un loro crollo avrebbe significato a catena quello banche commerciali. Queste tentarono di evitare il peggio tagliando ogni linea di credito e chiedendo il rientro dei prestiti: crearono un credit crunch. Il pubblico iniziò a temere un collasso del sistema bancario e andò a formare file davanti alla Banca d’Inghilterra per scambiare le banconote in monete d’oro.
Il panico si sparse dalla City al resto del mondo. Dal 30 Luglio tutte le borse dell’Europa continentale avevano chiuso i battenti, seguite il giorno successivo da Londra e New York: queste non riaprirono rispettivamente fino al 4 Gennaio 1915 e al 1 Aprile 1915. Il gold standard, da eden degli investitori, diventò una infernale trappola della liquidità, che si tentò di superare stampando enormi quantità di moneta fiat e con altre misure a dir poco eccezionali: nel Regno Unito venne promulgato un decreto reale con una moratoria di tre mesi per il pagamento di ogni somma tranne tasse e stipendi, il Tesoro si fece carico di ogni perdita a cui qualsiasi ufficio di cambio potesse incorrere, si arrivò persino a discutere di garantire pubblicamente le perdite di qualsiasi istituzione finanziaria.
I combattimenti non erano ancora cominciati che i titoli di stato russi erano scesi dell’ 8,8%, i francesi del 13,2%, gli austriaci addirittura del 23%. Ed era solo l’inizio: alla fine della guerra i titoli di stato britannici si erano svalutati del 46%. L’inflazione francese e soprattutto l’iperinflazione tedesca azzerarono i risparmi di chiunque avesse continuato a mantenere titoli in franchi o marchi. Stesso avvenne a chi avesse avuto titoli in qualche modo connessi con le dinastie russa, austriaca e ottomana. La globalizzazione dei mercati interconnessi aveva significato una rovina finanziaria globalizzata.
Dopo i trattati di pace risultò del tutto impossibile ripristinare il precedente ordine incentrato sulla libera circolazione dei capitali. L’opinione pubblica aveva perso ogni risparmio proprio a causa della globalizzazione. Inoltre il liberalismo ormai era solo il cieco ottimismo di un’era che era collassata con milioni di morti: tutto ciò che rimaneva di essa doveva essere spazzato via per evitare che una tragedia del genere potesse accadere nuovamente. I governi invece erano terrorizzati dalle crisi valutarie e dai default a catena nel giro di dieci anni (Russia, Cina, Turchia, Messico, quasi tutto il Sud America…). Si iniziò subito a erigere barriere protezionistiche e controlli sui capitali, nel tentativo di preservare la ricchezza nazionale cancellando lo scambio internazionale. Dagli anni ’30, con la grande depressione, l’idea maggioritaria diventò ovunque la costruzione di un ordine internazionale totalmente de-globalizzato incentrato sul tentativo di autarchia di ogni singola nazione, imponendo restrizioni severe alla libera circolazione di merci, capitali e lavoratori. Le restrizioni imposte per la prima volta in connessione con l’economia di guerra erano diventate la base del nuovo ordine della pace.
La prima età della globalizzazione impiegò una intera generazione per formarsi, ma riuscì a disfarsi nel giro di due settimane. Le nuove idee autarchiche che presero piede dopo la prima guerra mondiale, a seguito dell’immenso screditamento del liberalismo economico, perdurarono per un’altra generazione, fintanto che non scoppiò la seconda guerra mondiale. Come in un pendolo, questa volta furono autarchia, protezionismo e nazionalismo ad uscire screditati, e tornarono in auge le vecchie idee di libera circolazione di capitali, lavoratori, merci e servizi. Se però c’è qualcosa che ci insegna il passato per il futuro, è che nessun sistema è così solido da non poter crollare in un istante come una torre di Jenga. Magari siamo anche adesso sulle frange di un uragano e non riusciamo ad accorgercene, come non riuscirono ad accorgersene i nostri avi un secolo fa.
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