Un uomo di mezza età, baffi folti e pochi capelli in testa, ricoperto di sangue e con lo sguardo di chi ha perso tutto. “Penne al sugo”, indica la didascalia sulla sua testa. Una donna adesso, aspetto arruffato e volto tumefatto, occhi troppo gonfi per restare aperti e bocca deformata in una smorfia di dolore. Lei è un piatto di “penne gratinate”. E infine c’è un palazzo. O meglio, c’era un palazzo. Uno di quelli che sono crollati nella notte tra il 23 e il 24 agosto. Uno di quelli tra le cui macerie sono rimasti intrappolati duecentonovantaquattro corpi senza vita. Uno di quelli insomma, non importa quale, che Félix – non Félix Meynet, sulla cui pagina Facebook in molti si sono recati per vomitare odio – ha deciso di ritrarre per Charlie Hebdo come un piatto di lasagne, tra i cui strati il sangue diventa sugo e la morte condimento.
Un sottotesto c’è. E per quanto sia doloroso esplicitare un messaggio che qualcuno si è premurato di nascondere tra le pieghe della propria sensibilità artistica, sembra che stavolta valga la pena fare un’eccezione: “qualcuno mangerà sulle vittime del sisma”.
“La vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto fa infuriare la rete”, titola la versione online de La Stampa. “Charlie Hebdo, la satira sui morti del terremoto”, rilancia Il Messaggero. “La vignetta di Charlie Hebdo è di pessimo gusto, fatta da chi non solo non ha creatività, ma nemmeno sensibilità“, affonda il deputato del Pd Edoardo Patriarca. E se il suo compagno di partito Michele Anzaldi si spinge a chiedere “una presa di distanza della Francia, a partire dalle sue istituzioni”, la gravità della situazione è ben testimoniata dal fatto che a dettare la linea sia Giorgia Meloni, con un puntuale post su Facebook in cui si assicura di farci sapere che la vignetta “non fa ridere, non è sagace, non c’è neppure del ‘sarcasmo nero’. È solo brutta. Si vede che l’ha fatta un cretino. Mi spiace non siano riusciti più a trovare vignettisti capaci“.
Avete notato? Questa fantomatica rete la pensa quasi sempre come Giorgia Meloni.
Nel corso della giornata Charlie Hebdo ha risposto con una seconda vignetta, stavolta molto più didascalica, in cui attribuisce ad una donna parzialmente sepolta dalle macerie la frase “Italiani, non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia”. Il riferimento è alle indagini, condotte parallelamente dalla magistratura e dall’Autorità anticorruzione, riguardanti i lavori di rafforzamento anti-sismico, dichiarati e mai eseguiti, della scuola Capranica di Amatrice e del Campanile – oltre che della Torre Civica e la caserma dei carabinieri – di Accumuli.
Ci abbiamo provato in preda allo shock cognitivo seguito alla strage del 7 gennaio 2015 e nella misura in cui essere Charlie non significava condividere qualsiasi cosa avesse mai pubblicato la testata francese, ma affermare a voce alta che no, sulla satira non si spara. Che non si può ammazzare qualcuno perché manifesta le proprie idee – e che magari non si invoca nemmeno la chiusura del giornale per cui scrive. “Essere Charlie” voleva dire esercitare il proprio diritto di critica, anche e soprattutto nei confronti della satira, che come tutte le forme di contro-potere necessita di essere sottoposta al giudizio dell’opinione pubblica. Essere Charlie era un po’ un’utopia, però era bello pensare che potesse funzionare.
Non sono Charlie tutti quelli che oggi tratteggiano l’apologia della strage ai danni di una redazione giornalistica, ad esempio. Non sono Charlie quelli che fanno partire le petizioni per sopprimerne le future pubblicazioni. E non sono Charlie nemmeno quelli che erano Charlie soltanto perché l’alternativa sarebbe stata solidarizzare con la sensibilità religiosa di un Islam moderato.
Ma c’è una buona notizia: siamo quasi tutti Charlie. Persino Giorgia Meloni.
Ora non resta che imparare a capire la satira. Perché sì, il black humor – persino quello a prima vista più sfrontato – può anche essere satira e lo diventa nel momento in cui prova ad esorcizzare il potere che la morte ha su tutti noi. In questo senso Félix ha utilizzato uno stereotipo consapevolmente banale – quello della pasta come simbolo identitario dell’Italia intera, giocando anche con la centralità che il comune di Amatrice ha ricoperto nel dramma – e lo ha contrapposto all’immagine del dolore e della morte.
Fa ridere?
Non necessariamente. Ma è un espediente, uno dei tanti,che serve a dissacrare la morte e ingannare la nostra percezione di ciò che è eterno e immutabile. Umanizza ciò che è disumano, affinché ciascuno possa allontanarne l’aura sacra e distruttrice, anche solo per il tempo utile ad elaborare il lutto e sopravvivergli.
Nella vignetta di Charlie Hebdo le vittime restano vittime e non si strizza l’occhio affinché qualcuno possa riderne – avete notato? –, persino la mimica facciale le preserva da qualsiasi forma di sberleffo. Il richiamo culinario porta il lettore a chiedersi quale sia il messaggio implicito ed è solo una volta risolta la metafora che si smette di essere Giorgia Meloni. Che si abbozza un sorriso amaro, il sorriso di chi non irride i morti, ma sa ridere della morte. E magari riesce persino a trovarle un senso, fosse anche semplicemente racchiuso nella consapevolezza che sì, un altro “séisme à l’Italienne” forse è possibile evitarlo.
Quindi sì, je suis Charlie. E che vi piaccia o meno, pure voi siete Charlie.
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