A seguito del Referendum del 23 Giugno 2016 sulla permanenza del Regno Unito nell’UE e della conseguente vittoria del NO, o in altre parole, del Brexit, molti quotidiani europei [1], d’oltremanica [2,3,4] e d’oltreoceano [5], ritengono che il 2019 sia la data più probabile per ciò che ormai sembra definitivo: l’uscita del UK dall’UE.
Brevemente, il giorno dopo il referendum, Cameron si è dimesso, accettando così la pesante sconfitta politica, lui che di questo referendum era l’artefice, nonostante parteggiasse apertamente per il SI. La maggior parte degli analisti [6,7] si aspettava che Boris Johnson, strenuo sostenitore del NO e volto preminente (assieme a Farage) della campagna per il Brexit, nonché ex sindaco di Londra, partecipasse alle primarie. Tuttavia Johnson, a sorpresa ha deciso di non partecipare alle primarie di partito [8], lasciando così la sfida a Theresa May, Micheal Gove e Andrea Leadsom. Le sorprese comunque non sono finite qui: mentre tutti si aspettavano che Gove avrebbe raggiunto almeno il ballottaggio, ciò non è accaduto; gli elettori infatti gli hanno preferito Andrea Leadsom, la quale l’11 Luglio, prima della votazione finale, ha deciso di fare un passo indietro, lasciando così il partito in mano a Theresa May, che è divenuta così il 2° primo ministro donna del Regno Unito il 13 Luglio 2016.
Lo stesso Farage, a capo dell’UKIP da lui fondato e parlamentare europeo di spicco dell’estrema destra inglese, ha sorpreso analisti ed elettori, annunciando poco dopo il voto (e dopo dichiarazioni che hanno apertamente contraddetto quando affermato dai sostenitori della campagna per il NO che lui aveva sostenuto) che si sarebbe ritirato dalla vita politica, perché aveva raggiunto i suoi obiettivi [9].
In una situazione come quella appena descritta, in cui è quantomeno apparso che i sostenitori del NO non abbiano voluto prendersi le responsabilità politiche della via da loro precedentemente sostenuta, il Regno Unito si è trovato catapultato in una realtà da pochi attesa e da ancora meno preparata. Le manovre per trovare un ampio numero di consulenti che aiutino il governo inglese in questo importante cambiamento sono iniziate, ma non procedono spedite, tanto che David Davis, segretario per il Brexit, deve ancora assumere 500 collaboratori, mentre a Liam Fox, ministro del Commercio, ne servono 1000 ma, secondo il Times, ne ha trovati solo 100 [10].
La domanda che sorge più spontanea è: se davvero il Brexit avverrà nel 2019, come ad oggi sembra più credibile, quali sono le conseguenze più probabili per l’Inghilterra e per l’UE? Ad oggi, dopo appena qualche mese, nonostante perfino alcuni politici italiani [11] si siano già sprecati in previsioni tanto positive quanto azzardate per il futuro dell’Inghilterra, i numeri parlano di un indice al consumo cresciuto dello 0,6% in Luglio, la crescita più alta da Novembre 2014. A questo si vanno ad aggiungere aspettative negative per inflazione [12] (ovvero che raggiunga i livelli più alti da un anno a questa parte – ed economicamente parlando le previsioni che concernono l’inflazione vengono definite “self-fulfilling”, ovvero “auto-avveranti”) ed una sterlina che a causa del suo crollo, sin da ben prima del Brexit (il calo della sterlina infatti inizia da ben prima del crollo successivo al Brexit, nel periodo tra Novembre 2015 e Giugno 2016 infatti, la sterlina è passata dal valere 1,43 Euro al valerne 1,26), ha fatto crescere notevolmente i costi per le aziende (import ed export di petrolio, metalli, eccetera) [13].
Tra le altre varie conseguenze del Brexit, il Regno Unito ha perso la tripla A nel credit rating, a dimostrazione del clima di incertezza che si respira nell’isola. La Bank of England (BoE) ha subito preso provvedimenti a riguardo [14], tagliando il tasso di interesse, che ha raggiunto il minimo storico in 322 anni di 0,25%; la stessa BoE ha utilizzato altri strumenti per arginare il timore di una recessione: l’acquisto di £60 miliardi di nuova moneta immessa nel mercato acquistando titoli del tesoro inglese, abbassando così i tassi di interesse degli stessi e spingendo gli investitori più esigenti in termini di ritorni verso altri investimenti; un nuovo piano da 100 miliardi di sterline per invogliare la banche a prestare denaro ed aumentare la liquidità nell’economia inglese; la promessa di compare 10 miliardi di obbligazioni emesse da aziende inglesi che apportino un contributo genuino all’economia inglese.
The Bank of England growth downgrades are big. It had expected GDP increases of 2.3% in 2017 and 2018. Now +0.8% and +1.8% respectively
— Dan Milmo (@DanMilmo) August 4, 2016
Nonostante le misure intraprese comunque, la BoE ha tagliato le previsioni di crescita dell’economia, passando dal 2,3% allo 0,8%, e ha avvisato che la disoccupazione probabilmente crescerà, considerando che le attese suggeriscono la perdita di 250,000 posti di lavoro. Per queste ragioni, non è chiaro se il taglio dei tassi di interesse sia sufficiente e se la BoE provvederà o meno a ridurlo ulteriormente.
Una delle strade già battute in passato per quanto riguarda l’uscita dall’Unione Europea potrebbe essere quella del caso Groenlandia, avvenuto nel 1985, come suggerito da Ulrik Pram Gad in un articolo nel blog della London School of Economics [15]. La Groenlandia, infatti, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Danimarca, decise di non far ulteriormente parte dell’Unione Europea, e ne trattò l’uscita. Come è facilmente immaginabile, le differenze in questo caso sono impressionanti. La Groenlandia ha una popolazione di 56000 abitanti, ed il suo PIL nominale non supera i 100 milioni di dollari. Al confronto, il Regno Unito vanta una popolazione di 65 milioni di abitanti ed un PIL di 2,7 mila miliardi di dollari. L’unico vero tema affrontato nelle trattative tra Groenlandia e Unione Europea è stato quello della pesca, settore dal quale la Groenlandia è fortemente dipendente, e nonostante questo, ha comunque richiesto anni per essere affrontato completamente.
In che modo il caso della Groenlandia potrebbe tornare utile all’Inghilterra?
La vittoria di misura del Brexit non ha lasciato vinti e vincitori solo tra i politici o tra i partiti politici, ma anche tra gli stati che compongono il Regno Unito. Infatti, se Inghilterra e Galles hanno visto la maggioranza dei propri elettori votare per il NO, altrettanto non si può dire per Scozia, Irlanda del Nord e Gibilterra. In particolare Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese, in più di una occasione si è spesa per avvisare i cugini inglesi della sua volontà di difendere il volere degli Scozzesi di rimanere nell’UE, anche a costo di porre un veto sull’uscita del Regno Unito dall’Unione. Con queste premesse, vista anche la difficoltà nel reperire consulenti, appare chiaro che i problemi per Theresa May non sono destinati a finire nel breve termine. Perciò il caso della Groenlandia potrebbe in qualche misura tornare utile. L’alternativa infatti sarebbe quella di concedere a Inghilterra e Galles un’esenzione territoriale dal Regno Unito per quel che riguarda l’Unione Europea, pur mantenendo lo stesso Regno Unito nell’Unione stessa. In altre parole, il Regno Unito rimarrebbe parte integrante dell’Unione Europea, pur con un nuovo numero di parlamentari (proporzionale agli abitanti di Scozia, Irlanda del Nord e Gibilterra messi assieme) nel parlamento europeo, mentre Inghilterra e Galles avrebbero un’esenzione che gli permetta di gestire le loro economie indipendentemente e dunque di stipulare nuovi contratti con l’Unione intera. L’idea di Ulrik Pram Gad ha già raccolto l’apprezzamento di Nicola Sturgeon. E sebbene l’Unione Europea sia una comunità basata su regolamentazioni abbastanza rigide (si veda l’articolo 50), è anche vero che è mossa da un forte pragmatismo. In questo senso, l’esempio della Groenlandia potrebbe avere qualche buon suggerimento per i politici inglesi.
Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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Ex Studente di Finanza presso la Warwick Business School, ora lavora nel settore assicurativo in UK. Appassionato di politica ed economia, in passato ha militato tra le file del PD come Civatiano.
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