Articolo “guest” su quell’avanguardia del trash di “Non è la Rai” da parte della fan di IMDI Laura Primiceri sulla linea della serie di stronzate sugli anni ’90 di Frullo, che però questa settimana era troppo impegnato a farsi pagare per ironizzare su Grillo.
Diciamo subito le cose come stanno, perché nascondermi dietro un dito non mi è mai piaciuto (e in ogni caso per nascondere me altro che un dito, magari non basta la mano intera): sono una donna, ho più di trent’anni e negli anni ’90 ero una teenager.
Anzi, ero LA teenager, perché ero veramente lo stereotipo vivente, una bimbominkia ante litteram: fangirleggiavo per i Take That, passavo i pomeriggi a scrivere sulle Smemorande, guardavo MTV in inglese e scroccavo passaggi sui cinquantini truccati dei ragazzini del paese. In tutto questo, voglio parlarvi di quello che è stato una specie di rito iniziatico dell’adolescenza ninety, qualcosa di irripetuto e irripetibile che le generazioni attuali non potranno mai comprendere, nemmeno con un’abbuffata 24/7 di combo micidiali tipo Youporn + Youjizz. Voglio parlarvene senza l’abusato “senno di poi”, ancora con gli occhi della ragazzina che è in me: voglio raccontarvi com’era avere 16 anni, essere un roito inchiavabile e guardare ogni pomeriggio Non è la Rai.
Quanti di voi si ricordano di questo caposaldo del broadcasting televisivo del Belpaese? I più, probabilmente, hanno in mente uno sbiadito ritratto, fatto di spezzoni recuperati su Youtube o repliche buttate lì da Mediaset Extra ad orari infami. Ma io no. Io SO com’era essere una coetanea di quel branco di troiette mentre loro ancheggiavano fasciate in abitini super fashion al ritmo dei brani eurodance più in voga e io seduta davanti al tv a tubo 4:3 aggredivo sacchetti di patatine bisunti o barrette esageratamente cioccolatose per consolarmi del mio destino avverso, in un perverso circolo vizioso. Non è la Rai era la quintessenza del nulla televisivo: un centinaio di minorenni riempivano un paio d’ore post-prandiali ballando senza nessuna coreografia, cantando in playback con la voce di altre persone, facendo giochini scemi e sfilando per giorni interi con gli stessi vestiti, in una perenne atmosfera da festa delle medie senza capo né coda. Perché? È la domanda più ovvia. PERCHÉ?
Non lo so. Non arrivo a capire cosa potesse strutturarsi nella mente del pedofilo impunito Gianni Boncompagni, creatore di questi antesignani vintage dei festini bunga-bunga a cui il buon Silvio deve molto, con la differenza che il tutto non si svolgeva in equivoci sotterranei di lussuose ville sperse nella nebbia della Brianza, ma in diretta televisiva, ogni pomeriggio, su Italia 1. Non potevi avere quindici-sedici-diciassette anni e non guardare Non è la Rai. Per i ragazzi, questo paradiso fatto di capezzolini acerbi intravisti sotto le magliettine e inquadrature coraggiosamente upskirt ha rappresentato il portone di ingresso gloriosamente spalancato verso il mondo della masturbazione compulsiva. Chiedete ad un trentenne quante pippe si è fatto immaginando la candida manina di Ambra, o Pamela, o Francesca al posto della propria: vi sparerà un numero a diverse cifre.
Per le ragazze, di contro, osservare quei corpicini magri e svettanti era un colpo tremendo all’autostima: loro che non avevano i brufoli e i capelli unti, loro che non portavano gli occhiali, loro che non somigliavano a degli scaldabagni con le LA Gear ai piedi, ti si materializzavano davanti agli occhi quando tentavi di infilarti in quei capetti Onyx o Phard che i negozi del centro ti propinavano con autentiche ladrate degne dei tempi: una magliettina sottile come la sindone di Torino a sole quarantanovemilanovecento, ma vuoi mettere? La indossa Ambra sulla copertina dell’ultimo Cioè, e non fa niente se tutto quello che fa risaltare non sono due tettine poco più grandi di due brufoli, ma dei lardelli da fare invidia a Majin Bu. Tutto questo, mentre alle nostre orecchie giungevano ovattate le proteste dei vari Moige, associazioni delle femministe, delle mamme, dei cattolici e sailcazzo di chi altro, insomma, sembrava che tutto il mondo non volesse altro che radiare dai palinsesti questa perversa accozzaglia di varia immoralità, mentre noi post-bambini ce ne stavamo seduti in terra a guardare la degenerazione neuronale prendere forma giorno dopo giorno.
Le “ragazze di Non è la Rai” erano un marchio, le loro facce erano ovunque, il merchandising era invasivo: figurine, quaderni, diari, poster, magliette, cd e quant’altro erano il corredo di ogni adolescente medio con gli ormoni in funzione degli anni ’90. Poi, come sempre succede, con l’avvicinarsi della fine del magico decennio il giocattolo cominciava a mostrare la corda: i bimbi crescono, le mamme invecchiano, le pippe stancano ed è ora di dedicarsi alla caccia della patacca vera, a scapito di quella catodica. Come Luna Park e Giochi senza Frontiere, Non è la Rai si guadagna quindi il titolo di programma vintage. Oggi si chiamano bimbeminkia. Per quelle come me sono e saranno sempre le ragazze “please don’t go”.
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