Non voglio fare il solito nostalgico, ma prima che il concetto di videogiochi venisse associato a Call of Duty (se va bene) e a Ruzzle, esistevano cose fighissime chiamate avventure grafiche. Il motivo della popolarità delle avventure grafiche nei primi anni ’90 è di natura prettamente tecnica: i fondali fissi, le scarse possibilità di interazioniee le animazioni limitate permettevano di far girare sui vecchi computer quella che ai tempi sembrava una grafica meravigliosa (e spesso tuttora sa farsi apprezzare, almeno da chi ha gusto per il vintage).
Nei miei vari articoli sui ’90, la mia principale preoccupazione è stata quella di fare dei piccoli tributi senza scadere nel “OOOO LA MIA INFANZIA E’ STATA COSI FIGA, ORA SONO TUTTI COGLIONI E FA TUTTO CAGARE BAWWWW”. Però, nel caso delle avventure grafiche, è proprio così. I tempi d’oro di questo genere sono finiti da un bel pezzo, e tutto quello che ci resta è un pollo di gomma con una carrucola in mezzo. Non fatevi ingannare dal magheggiato boom di nuove avventure grafiche su tablet e smartphone: certo, la tecnologia touch ha rivitalizzato un’interfaccia che era stata data per obsoleta, ma il mercato è troppo diverso da quello di un tempo: il videogiocatore da telefonino cerca robette da pagare al massimo due euro per cazzeggiare sovrappensiero alla fermata del bus, e quindi enigmi di facile risoluzione e strutture ludiche di semplice fruizione: gli scenari maledettamente complicati e le trame di ampio respiro non li vuole più nessuno. Magari ogni tanto c’è qualche eccezione, ma la chiusura della storica Lucasarts da parte della malvagia Disney, raccontata da Jorial proprio qui su imdi.it , pone una pietra tombale abbastanza definitiva.
Chiusa l’inevitabile tirata nostalgica e rancorosa, che dire delle nostre amate avventure grafiche? La saga di “Monkey Island” è con ogni probabilità la più amata e la più celebrata nel genere. Il motivo? Beh, guardate il protagonista, Guybrush Threepwood: il nome improbabile e il look piratesco alla buona sono già un bel programma, confermato del resto dal suo scarso repertorio di abilità (a parte tenere il fiato sott’acqua per 10 minuti) e dal suo talento per mettersi in situazioni imbarazzanti. Sì, non siete gli unici sfigati ad immedesimarvi in Guybrush. I vari Monkey Island (o meglio, i primi 3 capitoli, 1991, 1992 e 1998, che poi sono senza dubbio i migliori, il quarto non fa molto a parte replicare forzatamente la struttura degli altri e risulta più irritante che divertente; il “quinto”, fatto di vari capitoli distribuiti separatamente, è carino, ma non è più la stessa cosa e lo sappiamo tutti) non nascondono una struttura narrativa di base alquanto archetipica: eroe in un percorso di formazione, donna amata, antagonista cattivone, rivali e aiutanti, oggetti magici, congiunzione finale con l’oggetto del desiderio… sembra una favola dei fratelli Grimm e il buon vecchio Greimas ne sarebbe compiaciuto.
Allora perché tutti se la menano così tanto con la “leggendaria” trama dei Monkey Island? Perché Guybrush, Elaine e LeChuck sono diventati dei miti per quel paio di generazioni che smanettavano con floppy disk e 386 polverosi a cavallo dei tragici e gloriosi anni ’90? beh, magari le ambientazioni pseudo-caraibiche e volutamente anacronistiche (tutte le ambientazioni dei vari episodi sembrano messe lì per prendere per il culo gli stereotipi del genere piratesco, con l’amata/odiata Monkey Island che funge da riproposizione ridanciana dell’isola col bottino) giocano la loro parte. Sicuramente l’assoluta demenzialità dei dialoghi c’entra qualcosa. Con ogni probabilità le musiche ripetitive ma avvincenti danno una mano. Prima di tutto questo, però, i Monkey Island sono rimasti nel cuore dei nostalgici perché erano forttutamente divertenti.
Il grande merito di Ron Gilbert e seguaci è stato quello di aver oculatamente progettato la struttura di gioco in modo da mantenere il rimo uniforme senza che la componente narrativa prevalesse mai sull’esplorazione e sulla risoluzione di enigmi o viceversa. Ogni volta che il giocatore ha concluso una serie di dialoghi, racimolato determinati oggetti e risolto certi enigmi, arrivano nuovi agghiaccianti personaggi, locazioni barocche e enigmi demoralizzanti a turbare la già compromessa salute mentale del tapino Guybrush (che, a dirla tutta, diventa in realtà un terribile carnefice in più occasioni, giocando ripetutamente con i sentimenti degli NPC pur di ottenere oggetti apparentemente inutili, arrivando addirittura a rubare il monocolo di un ragazzino mezzo cieco e a commettere varie nefandezze). La varietà di ogni situazione rispetto alle precedenti allontana l’altrimenti inevitabile monotonia, e lo stile demenziale/caricaturale rende il gioco coeso e, in qualche modo, coerente nella sua totale e ostentata non-coesione e non-coerenza.
L’elemento che in ultima analisi rende Monkey Island un’esperienza unica e tuttora insuperata nel suo genere è la forzatura più totale dell’autocitazione come espediente comico; ovunque sia lontanamente possibile glorificare la Lucasfilm (sono continui i rimandi a George Lucas, per non parlare del pirata che pubblicizza “Loom”) o Monkey Island stesso, il gioco lo fa, fino alla ridicolizzazione più estrema; il mito di Monkey Island nasce esattamente da questo aspetto. L’umorismo becero è la base, che diventa culto grazie al contesto e viene glorificata dal nonsense guybrushiano. Citare “Dietro di te, una scimmia a tre teste” a un profano suscita pessimismo e fastidio, perché fuori dal contesto le perle di saggezza di MI non fanno ridere proprio per niente. E’ il contesto che le nobilita. E in questo contesto noi continuiamo a renderci ridicoli combattendo a colpi d’insulti, a celebrare il grog senza averne bevuto un goccio in tutta l’avventura e a emettere strani gorgoglii di fronte a Elaine Marley . Perché, in fondo, noi siamo Guybrush Threepwood. E ne andiamo pure fieri.
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