Peraltro (e peraltro non scrivo casualmente peraltro, ma per altro) in Meow 15 – 41 è scritto: “Allacciati bene le scarpe perché altrimenti inciampi”. Questo implica non tanto la comune vulgata che per deambulare occorrano le scarpe, fin lì ci sarebbe arrivato anche Filippo, ma che per procedere speditamente servano i lacci. Come infatti attesta Bruno Chiari*1: “Perché una spiegazione sia valida, è strettamente necessario che l’interlocutore non sia un caimano, altrimenti si rischia di sfociare nel qualunquismo”. Ma a parte questo cambiamo discorso e parliamo di teatro da un punto di vista squisitamente biologico. Afferriamo dunque il toro per le corna, e dunque afferriamo i due corni della quistione: cos’è che rende comico il comico, non lo sappiamo, è un secondario problema insolubile; ma i due fatti che ignoriamo a tutto tondo sono:
a) cosa faccia sussultare buona parte del busto dello spettatore inducendolo ad espettorare singulti poco aggraziati, estremamente simili a quelli del Macaca sylvanus una volta che abbia evacuato. Quella che da voi viene definita “risata”, quando sarebbe più schietto “latrato”.
b) cosa induca i palmi delle mani dello spettatore, a cozzare ripetutamente tra loro, seguendo una struttura ritmica dispari che a mio avviso non ha niente a che fare con l’entusiasmo. Cosa poi sia l’entusiasmo è un problema strettamente vostro.
Quanto al punto a), sussultare come se si stesse evacuando qualcosa di sgradevole, rimanda con ogni probabilità ai primi giorni dell’Età del Ferro, quando la dieta alimentare era improvvisamente cambiata e dai giorni ameni della lattuga di campo si era passati al doloroso vitto incentrato sulle corna dell’ircocervo. In quei giorni, quando sopravveniva il temuto momento dell’espulsione, essa si poteva presentare o singola o doppia o tripla o persino nella sequenza del Fibonacci (assegnando i valori dei due primi termini, F0:= 0 ed F1:= 1, e chiedendo che per ogni successivo sia Fn := Fn-1 + Fn-2 con n>1). Va da sé che trattandosi di evacuare corna a volte estremamente aguzze, l’essere umano si sottoponeva a un passaggio squarciante, alla fine del quale venivano emessi singoli o ripetuti gridi di dolore e stupore misti a crescente allegria (“ah, ah ah ah, ah ah ah ah ah). Era l’ineguagliabile spettacolo delle feci: “le cose che io ho fatto“. E’ solo attraverso tale ancestrale mediazione che dallo spettacolo anale degli scarti, giungiamo allo spettacolo banale del teatro: infatti solitamente, nei dolorosi giorni dell’ircocervo, nel fosso, di fronte all’evacuatore era posizionato uno schiavo che si sforzava di rallegrarlo raccontando piccole scene di vita nella foresta, eseguendo imitazioni di fiere, e cimentandosi nella strepitosa parodia dell’eterocefalo glabro. Questo, una volta per tutte, a riguardo del ridere a teatro. Quanto al punto b) (applaudire), esso rimonta a una consuetudine descritta con abbondanza nelle pitture rupestri, dove si vede chiaramente un uomo accovacciato che non sta giocando a tombola, il quale batte le mani per comprimere a morte i numerosi mosconi del fosso attratti da “le cose che io ho fatto“.
Ecco risolto.
Ni
1* – Bruno Chiari, grande mistico gattolico della metà del milleseicento (che fa ottocento secco), è famoso per le sue frasi permeate di assoluta imparzialità, dettate dal buon senso anziché dall’orgoglio. Si possono fare molti esempi, ma due dei più lampanti sono indubbiamente il suo commento all’autobiograifa di Mordinaso: “Vigliacco”, e il suo capolavoro “Sono tutti parziali, a parte Bruno”
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