La spirale è una figura caratteristica delle culture di tutti i tempi: una linea che si avvolge su se stessa e che si lega quindi ai concetti di eterno ritorno e di ciclicità del tutto. Per la sua capacità di riunire il molteplice con l’unità, per il fatto di poterla pensare piatta e bidimensionale o profonda e tridimensionale, è spesso stata utilizzata come metafora per tradurre su carta le sensazioni più intime dell’animo umano e le sue manifestazioni esteriori.
Uno dei periodi più fecondi per l’uso di questo elemento labirintico è sicuramente stato il postmodernismo. Dopo le rivoluzioni scientifiche di inizio Novecento, si è prestata molta più attenzione alle strutture interne dello spirito, soprattutto a causa delle scoperte psicoanalitiche operate da Freud, che inferse quella che oggi chiamiamo “terza grande ferita narcisistica” al ruolo dell’uomo sul mondo sensibile e su quello trascendente. Di pari passo con le delusioni e la rabbia che hanno tradotto in atti di brutale violenza la frustrazione dell’uomo moderno, proseguiva la ricerca di una possibilità di salvezza e redenzione dentro di sé.
Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, al contrario, mentre il benessere e la dolce vita si diffondevano per l’Europa, l’uomo subiva una specie di scacco: non esistevano più punti di riferimento esterni ai quali ancorarsi, nulla poteva sostituire le certezze che le divinità o la fede potessero esprimere, e agli individui non rimase che la possibilità di idolatrare gli ultimi ritrovati tecnologici e quasi farsi rimpiazzare da essi.
Come si tradusse tutto ciò in letteratura? Gli intellettuali degli anni Sessanta non ebbero altra scelta se non quella di riproporre il modello di una enciclopedia aperta, ampia e sfuggente, che tentasse di descrivere illusoriamente una sola porzione di realtà in maniera totale; se da una parte essi ricalcavano le orme dei letterati medievali (vedi Dante), che però potevano ancora contare sulla certezza di un mondo metafisico, dall’altra manifestavano uno dei sintomi caratteristici del solipsismo novecentesco: la paranoia e l’ossessione per un particolare osservato e descritto in ogni sua possibile modalità, per poter così presumere di conoscerlo esaustivamente.
È così che nasce l’iperromanzo, ossia scritti monumentali che potessero tramite sperimentazioni letterarie attuare questi procedimenti: La vita istruzioni per l’uso di Perec, Underworld di Don DeLillo, e anche Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Proprio Calvino, nelle sue Lezioni americane, fa riferimento ai caratteri della letteratura a lui contemporanea per tentare di salvaguardare dei valori da trasportare nel nuovo millennio, tra cui molteplicità ed esattezza, le peculiarità di chi scrive questi romanzi “a spirale”. Calvino non fece in tempo ad arrivare al 2000 per verificare coi suoi occhi ciò che si era augurato; fece però un esempio a lui coevo, che anche per noi resta una pietra miliare nel panorama della letteratura.
Parlo naturalmente di Jorge Luis Borges. Secondo Calvino, lo scrittore argentino è l’unico che nel Novecento riesce a coniugare labirinticamente un ventaglio di generi -e di storie, racconti, situazioni- diversi con la precisione e la brevità della sintesi. In Finzioni, ad esempio, Borges scrive il famosissimo racconto del Giardino dei sentieri che si biforcano, usato dall’italiano per esemplificare le sue teorie narrative: solo Borges è capace di inserire un racconto di guerra dentro un racconto di spionaggio e inquadrarlo in un flashback narrativo nelle poche pagine impiegate, e per di più trattando un tema di importanza fondamentale per l’uomo quale il tempo e la sua concezione.
Questo breve racconto dimostra però la sua grandezza – e quella del suo scrittore- per il fatto che può essere metaforicamente usato come emblema della scrittura e quindi come teoria narrativa. Nel racconto, il protagonista afferma di aver cercato a lungo il labirinto costruito dal vecchio parente, e di non averlo mai trovato; l’unica cosa di cui è in possesso è un libro, non molto chiaro e composto di pagine disordinate. Alla fine dell’intreccio, però, si comprende come il labirinto sia esso stesso il libro, che tenta di fornire una spiegazione del reale dall’alto, senza riuscirci esaustivamente.
Lo stesso avviene proprio in un altro scritto di Calvino, Il conte di Montecristo, presente nella raccolta Ti con zero: Edmond Dantes, a differenza del suo compagno di prigionia che scava e tenta la fuga senza mai raggiungere il suo obiettivo, preferisce usare le sperimentazioni pratiche dell’amico per teorizzare la fortezza perfetta, capirne segreti e meccanismi solo con la ragione e dedurne una eventuale falla senza muovere un dito.
Calvino qui espone un manifesto programmatico: la propria scrittura non potrebbe esistere senza quella di chi scandaglia nel dettaglio un aspetto del reale fino ad esaurirlo del tutto; al tempo stesso, però, egli preferisce osservare il mondo dall’alto, in attesa di quell’epifania che gli faccia comprendere un qualche senso del mondo e lo riscatti dalla frustrazione, tipica dell’uomo contemporaneo, di trovarsi in una crisi (apparentemente) senza uscita.
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