Irpef è una sigla. Sta per “imposta sul reddito delle persone fisiche”. Istituita nel 1974, è un’imposta diretta, personale e progressiva che tassa i redditi di più o meno qualsiasi natura, e soprattutto, costituisce da sola un terzo delle entrate dello Stato. Ma prima, un po’ di storia.
In uno stato di natura come quello teorizzato dal filosofo Locke, gli uomini tendono a badare soltanto al proprio tornaconto e a calpestarsi a vicenda nella guerra per la sopravvivenza, senza rispettare nessuna regola che non sia quella del più forte. Tale stato di barbarie si può ammirare nelle condizioni di estrema povertà delle favelas, in teatri di guerra o, più vicino, in provincia di Napoli e dintorni. Tale situazione, comunque, non è eterna: viene superata dall’istituzione del cosiddetto “patto sociale”; in sintesi, gli uomini rinunciano alla parte della propria libertà che permette di ammazzare qualcuno per uno sguardo di traverso, e in cambio vengono garantiti a tutti mutuo aiuto e guadagno reciproco. Questa filosofia del patto sociale non trova riscontro all’interno della biologia; la razza umana, già da ben prima di dividersi dal resto delle scimmie, ha sempre vissuto in gruppi con regole chiare, senza bisogno di costituire nessun tipo di patto sociale.
Resta comunque un buon esercizio di pensiero che viene poi reso reale nella costituzione di comunità più grandi, e lascia comunque un insegnamento importante: la società esiste soltanto perché questa è stata accettata, e i vantaggi che tutti quanti ne abbiamo derivano soltanto dall’accettazione di certe regole.
Un vantaggio indubbiamente molto importante è quello derivato dallo stato sociale. Pubblica istruzione, pubblica sanità, la costruzione di infrastrutture… sono servizi che si basano sulla pubblica cooperazione e una condizione che è sempre stata chiara; lo Stato garantisce queste prestazioni, e il cittadino rinuncia a parte dei propri introiti per finanziarli. Perché, chiaramente, chi lavora per garantirne il funzionamento vorrebbe avere qualcosa in più di una pacca sulla spalla e tanta gratitudine.
Questo potrebbe degenerare nel solito discorso, trito e ritrito, sull’evasione fiscale, dove ce la prendiamo con i ladri (questo è il termine tecnico per definire chi prende qualcosa senza pagare) e chi ci rovina la nostra bella patria. Ma qua vorrei fare un discorso un po’ più ampio con un po’ di dati semplici semplici.
In Italia, di IRPEF, la metà circa dei contribuenti paga 500 euro di media. Che sono, estraggo dal testo, il 15% circa dell’introito generale. Tradotto in soldoni; se dividessimo i contribuenti italiani in due grosse fette, una pagherebbe sei volte più dell’altra (qui per un estratto dei dati più importanti, qui per avere accesso ai dati completi)
Possiamo parlare di Europa ladra fino alla morte del Sole. Possiamo dare la colpa ai politici, agli Stati Uniti, ai grossi evasori, a tutte le entità immaginarie che la nostra fantasia può concepire. Ma il dato è chiaro e semplice; c’è una fetta di italiani che le tasse le paga, e una seconda fetta di italiani che persevera nel parassitare la prima. In questa fetta grossa c’è di tutto. Lavoratori autonomi sconosciuti al fisco. Lavoratori autonomi che non dichiarano redditi positivi. Lavoratori autonomi che dichiarano fra i 3500 e gli 11.000 euro annui. Quasi nessun lavoratore dipendente.
Per immaginare la situazione in maniera un po’ più concreta, immaginate di andare al ristorante. E immaginate vi venga portato un conto salatissimo. Immaginate di chiedere al cameriere il motivo di questo conto salatissimo, e immaginate che lui vi risponda “quel cliente lì non ha intenzione di pagare, deve essere lei a coprire il conto anche per lui”. Così fa un po’ arrabbiare, vero?
Succede pari pari con le tasse. E questa è colpa nostra.
Dobbiamo pensarci. Dobbiamo pensarci prima di prendercela con Equitalia kattifa che deve chiudere che manda la gente sul lastrico. Dobbiamo pensarci prima di incitare il populista del momento a dire “evadere le tasse è una necessità”, e applaudirlo negli studi televisivi di un conduttore che, se avesse un minimo di decenza e deontologia, gli farebbe ingoiare il microfono mentre parla. Dobbiamo pensarci quando la fattura non ce la facciamo fare perché così paghiamo meno. Noi così facendo incitiamo questa gente a toglierci i soldi dalle tasche. E dobbiamo pensarci anche quando paghiamo tutti tasse altissime e ci lamentiamo, perché un responsabile c’è, ma a noi fa comodo non vederlo.
Forse potremmo cambiare il paradigma mentale. Non dovremmo più dire “chi evade lo fa per sopravvivere”. Dovremmo dire “se oggi in Italia non ci sono più i soldi nemmeno per piangere, è colpa di lui che non paga”. Dovremmo dire “li vedi i nostri professori che hanno degli stipendi indegni? È colpa del furbetto che fa finta di niente”. Dovremmo dire a tutti quelli che lavorano per lo Stato “lo sai perché il turnover è bloccato? Prenditela con quelli che usufruiscono dei servizi senza aiutare a mantenerli”. La macchina statale italiana è elefantiaca, e questo lo sappiamo. Ma questo difetto va cambiato con un’azione politica che tagli i costi meno necessari, non con l’iniziativa di un privato cittadino che smette di pagare pur continuando a usare quei servizi che disprezza. Questa non è “disobbedienza fiscale”. Il concetto, nobile, di ribellione è qualcosa che non ha nulla a che vedere con questa mentalità silenziosa di scambi sottobanco e silenzio diffuso per il quieto vivere. Questo è parassitismo, e dovremmo cominciare ad alzare la voce contro questa gente prima che vengano tagliati tutti i servizi per l’insostenibilità causata da alcuni. Se mio figlio dovrà andare in una scuola scassata per colpa vostra, io giuro che vi meno.
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