E il motivo è molto semplice: Atlas Shrugged (tradotto in italiano La rivolta di Atlante) è lungo circa 1200 pagine, neanche scritte tanto bene.
Eppure l’autrice, nata nel 1905 in quel di San Pietroburgo col nome di Alisa Zinov’yevna Rosenbaum e morta come Ayn Rand a New York nel 1982, ha sviluppato attraverso la sua opera principale una nuova corrente filosofica, l’oggettivismo, fortemente legato alle correnti libertarie e meritocratiche. La storia è piuttosto affascinante sebbene i suoi più grandi sostenitori riconoscano che, da un punto di vista puramente tecnico e letterario, non si possa definire un libro portatore di uno stile nuovo e travolgente (per farvi capire, ad un certo punto, il personaggio fondamentale attacca con un comunicato radiofonico lungo 90 pagine).
Chi è John Galt?
E’ la domanda principale per buona parte del libro. E se lo domanda anche la protagonista, dirigente apicale di un’importante azienda delle ferrovie di una nazione sconosciuta. L’ambientazione è distopica e fantascientifica, o meglio dieselpunk (voi nerdastri ne saprete più di me). Il governo ha centralizzato quasi tutti i settori, statalizzando di fatto l’economia e la cultura: il focus della politica è interamente sul bene della collettività, con forte accento all’uguaglianza totale dei cittadini. Così facendo non si rende conto di aver disincentivato e ostacolato l’opera dei first movers, gli innovatori che grazie a capacità intellettive sopra la media avevano fino ad allora portato il progresso in campo tecnologico, produttivo e culturale. Tra questi c’è anche il misterioso John Galt, inventore di un motore rivoluzionario, che vedendosi come un Atlante scazzato dal peso del globo che sente sulle proprie spalle decide di ritirarsi dalle scene e organizzare la rivolta dei cervelli. Pian piano convince tutte le grandi menti della nazione, protagonista compresa, ad abbandonare la società e a scomparire, nascondendosi in un luogo segreto. L’assenza di persone che – stimolate da un profitto puramente individuale e valutato sul merito – operano per il progresso industriale conduce lentamente alla rovina della nazione.
Maledetta Meritocrazia
Ayn Rand lancia quindi un paio di sassi contro le vetrine dell’egualitarismo spinto fino alla supremazia della collettività sull’interesse individuale. Queste pietre rientrano tutte sotto quella roccia dura – ma intangibile – della meritocrazia. Il “governo dei competenti” è stato per altro formalizzato recentemente, per quanto l’idea di affidare il potere (di riparare un lavandino, o di guidare un governo) a persone con dimostrate capacità esista dall’alba dei tempi. Ironicamente, la Meritocrazia come forma di governo nasce da un’opera del 1958 (un anno dopo l’uscita di Atlas Shrugged) di Michael Young, in cui il sociologo accusa tale sistema di generare una classe dirigente elitaria e completamente distaccata dai problemi delle masse (non vi ricorda l’accusa rivolta ai governi tecnici?).
Eppure la meritocrazia dovrebbe essere una bandiera condivisa da chiunque voglia il bene e per sé stesso e per la collettività. Per definizione, si intende meritocratico un sistema che premia le conoscenze delle persone, indipendentemente dal loro sesso, etnia, età, sessualità, eccetera. Una nazione che non è in grado di dare alle persone tanto quanto queste dimostrano di valere, è una nazione spacciata. L’Italia è l’esempio negativo “per eccellenza”, e rendiamoci conto che oramai abbiamo oltrepassato il livello per cui sono soltanto i grandi cervelli a scappare; è sotto gli occhi di tutti che perfino un cameriere può ottenere una carriera più soddisfacente a Londra che a Milano, dove anzi la parola “carriera” non si può nemmeno immaginare accostata a “cameriere”.
Eppure, proprio in Italia, c’è chi sostiene che la Meritocrazia sia pericolosa.
Per essere uguali bisogna essere stupidi
Fausto Raciti è il segretario nazionale dei Giovani Democratici, organizzazione giovanile del PD. Ha scritto un libro intitolato L’imbroglio della meritocrazia: qui sotto il video della presentazione a Uno Mattina.
Il suo delirante percorso logico è il seguente:
1) Un sistema meritocratico è sbagliato, perché consegnando il potere a un’élite di gente con maggiori capacità diventa di fatto antidemocratico.
2) Bisogna invece dare la possibilità a tutti di studiare e di imparare.
3) A quel punto premiamo quelli con maggiori capacità.
Come il punto 3) possa sopravvivere data la premessa del punto 1), è un segreto che Raciti non ci svela. E’ invece palese l’errore che compie chiunque ritenga la meritocrazia un pericolo alla democrazia anziché un pregio. Supponiamo infatti che in una nazione esista un solo maestro, e che questo maestro insegni esclusivamente all’unica famiglia ricca del Paese. Evidentemente, la meritocrazia darebbe la leadership sempre e solo ai componenti della famiglia, in quanto di fatto competenti rispetto al resto del popolo. L’ingiustizia è palese, ma quale sarebbe il destino della nazione se il governo fosse composto da persone scelte tra un popolo completamente privo di cultura e conoscenza? Il risultato sarebbe altrettanto negativo.
E’ evidente quindi che in uno stato del mondo dove non esistono pari opportunità, sia la meritocrazia che la democrazia diventano portatrici di pericoli e danni gravi. Laddove invece si permette a tutti di partire dalle stesse basi e di accedere alle medesime quantità e qualità di servizi educativi (indipendentemente dal censo e dalla provenienza) e incentivando nel tempo coloro che più si impegnano e si dimostrano bravi, allora la meritocrazia diventa veramente un acceleratore individuale e, per induzione, collettivo.
Ma in Italia abbiamo fenomeni come Raciti che non chiedono pari opportunità ma esigono pari risultati. E a quel punto Atlante si scazza ed emigra a Londra.
Per quelli che la partita doppia è andare allo stadio ubriachi. Prendo un libro o un giornale di economia, lo apro a caso, leggo e – qualche volta – capisco l'argomento, infine lo derido. Prima era il mio metodo di studio, adesso ci scrivo articoli. Sono Dan Marinos, e per paura che mi ritirino la laurea mantengo l’anonimato.
Per quelli che la partita doppia è andare allo stadio ubriachi. Prendo un libro o un giornale di economia, lo apro a caso, leggo e – qualche volta – capisco l'argomento, infine lo derido. Prima era il mio metodo di studio, adesso ci scrivo articoli. Sono Dan Marinos, e per paura che mi ritirino la laurea mantengo l’anonimato.
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